Francesca Molteni, col suo laboratorio MUSE Factory of Projects si pone l’obiettivo di mettere in relazione creatività, cultura e impresa. Noi, con l’Osservatorio Monografie Istituzionali d’impresa, cerchiamo, studiamo e promuoviamo la relazione tra creatività, cultura e impresa.
Le nostre strade si incrociano quindi inevitabilmente.
L’abbiamo intervistata in occasione dell’apertura della mostra da lei curata per Museimpresa “Il grande gioco dell’Industria, 50+1 oggetti hanno fatto la storia dell’impresa italiana“.
Dottoressa Molteni, da cosa nasce l’idea di raccontare l’impresa italiana partendo dagli oggetti e che logica é stata seguita nella selezione di questi oggetti-simbolo?
La mostra nasce da un gioco, da una sfida lanciata nel 2012 sulle pagine della Domenica del Sole 24 Ore ai 50 musei d’impresa,uniti nell’associazione Museimpresa.
Ci sono oggetti della storia industriale che hanno assunto una valenza simbolica straordinaria: a partire dallo “shuttle”, la famosa navetta emblema della Rivoluzione industriale inglese. Abbiamo così chiesto agli imprenditori, che hanno creato archivi e musei aziendali, di selezionare un oggetto icona – il più bello, il più venduto o il più curioso. Ci hanno mandato la carta d’identità dell’oggetto, le immagini e i disegni che lo illustrano, accompagnati da una breve biografia. Io ho scritto queste storie, prima per il Sole 24 Ore e poi, con Museimpresa, le abbiamo raccolte, animate, messe in gioco, ordinate secondo una linea temporale, in una mostra, “Il grande gioco dell’industria. 50+1 oggetti che hanno fatto la storia dell’impresa italiana”.
Nell’allestimento della mostra come é stata programmata la lettura socio/antropologica dell’itinerario?
La lettura è cronologica, dal più antico, la spoletta di Kay, fino agli anni duemila. La mostra è prevalentemente iconografica: fotografie d’epoca, disegni, schizzi, brevetti dialogano tra loro.
E’ una mostra non “museale”, perché questi oggetti non sono cimeli, si comprano ancora, e funzionano. Non sono sacri ma domestici, cose di famiglia. Ci fanno simpatia. Per un ricordo, un colore, un’avventura ancora da immaginare. Utili, sì, ma anche belli. Spesso ben disegnati, da un architetto, un ingegnere o un artigiano sconosciuto. Sono per tutti, perché sono nati per arrivare dovunque.
Il racconto d’impresa, inteso nelle sue più diverse espressioni, dal museo aziendale alla monografia fino alle fiction ispirate a figure imprenditoriali, gode da un decennio di grande vitalità. Quale demone ha ispirato le aziende di oggi a riscoprire la necessità di narrare sé stesse prima ancora del loro prodotto o del loro servizio? E non pensa che possa esserci il rischio che ciò si trasformi in una moda priva di obbiettivi?
Credo che il problema sia opposto. Tranne alcune eccellenze, le nostre aziende sono ancora molto concentrate sul prodotto, giustamente, e sulla qualità della produzione. Lì vanno i maggiori investimenti. Finalmente si comincia a capire che una narrazione è fondamentale non solo verso l’esterno, per comunicare e promuovere il marchio, ma soprattutto verso l’interno. Io la chiamo una sorta di “analisi psicanalitica” collettiva, cui l’azienda è chiamata quando mette in cantiere il progetto di una monografia, di una mostra, di un video istituzionale. Se ci si interroga sulla propria identità, sulla storia, sul passato e sul futuro, si può avere una buona strategia, più consapevole, per affrontare i cambiamenti globali e le nuove sfide.
Il museo aziendale, che potremmo definire una monografia 3D, che rapporto ha con la monografia istituzionale d’impresa intesa in senso letterario?
Spesso sono complementari. Il pezzo fisico, il prodotto è importantissimo. Vedere, toccare, capire i materiali, il lavoro che c’è dietro, è fondamentale, e l’esperienza in prima persona di una visita sul luogo, dentro l’azienda, è imprescindibile. ma c’è un contenuto invisibile, immateriale, che nel prodotto è implicito e che solo la narrazione “alta”, letteraria, può far emergere.
Per concludere: tutto ciò ruota attorno alla valorizzazione dell’eccellenza italiana basata su grande creatività e artigianalità. Però – ed é cronaca anche recentissima – proprio grandi marchi dei settori simbolo del Made in Italy (Gucci, Krizia, Ballarini, Gromm per citarne alcuni) per trovare la giusta valorizzazione passano in mani straniere. Non é che adoperiamo “Made in Italy” anziché “Fatto in Italia” – come suggerisce Oliviero Toscani – perché, in fondo, non ci fidiamo dell’italianità?
La domanda è molto complessa, oggi alcune aziende sono costrette per crescere a cercare altrove i propri interlocutori. Il che è bene, da molti punti di vista, le aziende così “si aprono” e respirano un’aria diversa, non solo famigliare. Certo noi siamo molto legati al “Fatto in Italia”, è un valore assoluto. Ma, mi chiedo, è davvero nella manifattura la nostra creatività per il futuro? Non dobbiamo guardare a una manifattura evoluta, 3.0 o addirittura 4.0, come si comincia a immaginare? Lascio la domanda aperta, è una bella avventura ancora da cominciare.
Tiziana Sartori – Stefano Russo
A breve pubblicheremo una gallery di immagini e notizie sui meravigliosi 50+1 oggetti che raccontano, oggi, non solo la storia del design e dell’impresa d’Italia, dalla rivoluzione industriale ai giorni nostri, ma anche quella della società, dei costumi e quindi dei consumi degli italiani.
Who’sWhoFrancesca Molteni – Laureata in Filosofia, si è specializzata in Film Production alla New York University. Museimpresa – Associazione Italiana Archivi e Musei d’Impresa – nasce a Milano nel 2001 per iniziativa di Assolombarda e Confindustria con l’obiettivo di individuare, promuovere e mettere in rete le imprese che hanno scelto di privilegiare il proprio patrimonio culturale all’interno delle proprie strategie di comunicazione. |
Scrivi un commento