L’uomo, il “parlante” non può esistere senza “la parola”. Diventa un morto che si finge vivo, diventa il reale rappresentante della “società degli spettri” così come la si intende oggi.
Il termine “Società degli Spettri” aveva, nella civiltà dei nativi americani, un profondo significato mistico, rappresentava cioè la percezione della continuità con i propri antenati, con le loro battaglie e realizzazioni, con la loro storia.
Oggi questo termine è spesso usato in un significato che è esattamente opposto. Un conto è la “società degli spettri” di vivi che si sentono in comunità con i propri morti, un conto completamente diverso è quella di morti che, ignari della propria condizione, si illudono o fanno finta di essere ancora vivi.
Voglio, con questo post e l’importante articolo che lo accompagna, rappresentare il significato odierno del termine “società degli spettri” proprio attraverso la consapevolezza opposta di un vivo che in continuità con i propri antenati, la propria comunità e la propria storia ne coglie insegnamenti e valori.
Lo faccio in memoria del Professor Tullio de Mauro (Torre Annunziata, 31 marzo 1932 – Roma, 5 gennaio 2017) e del Professor Mimmo Càndito (Reggio Calabria, 15 gennaio 1941 – Torino, 3 marzo 2018) che tanto hanno dato alla lingua ed al loro utilizzo come strumento essenziale e imprescindibile del “pensare”.
Non molto prima della sua scomparsa Professor Mimmo Càndito scriveva sulla Stampa questo bell’articolo titolato “Il 70 per cento degli italiani è analfabeta (legge, guarda, ascolta, ma non capisce)” che dedicava proprio alla memoria di De Mauro.
L’articolo ben rappresenta quello che è stato chiamato “analfabetismo funzionale” e che l’autore analizza approfonditamente nelle cause e negli effetti sociali. Preconizzando appunto quella Società degli Spettri citata nell’incipit.
Buona lettura.
Stefano Russo
Articolo di Mimmo Càndito, tratto da La Stampa del 10 Gennaio 2017 – L’articolo è pubblicato qui
Non è affatto un titolo sparato, per impressionare; anzi, è un titolo riduttivo rispetto alla realtà, che avvicina la cifra autentica all’80 per cento. E questo vuol dire che tra la gente che abbiamo attorno a noi, al caffè, negli uffici, nella metropolitana, nel bar, nel negozio sotto casa, più di 3 di loro su 4 sono analfabeti: sembrano “normali” anch’essi, discutono con noi, fanno il loro lavoro, parlano di politica e di sport, sbrigano le loro faccende senza apparenti difficoltà, non li distinguiamo con alcuna evidenza da quell’unico di loro che non è analfabeta, e però sono “diversi”.
Quel è questa loro diversità? Che sono incapaci di ricostruire ciò che hanno appena ascoltato, o letto, o guardato in tv e sul computer. Sono incapaci! La (relativa) complessità della realtà gli sfugge, colgono soltanto barlumi, segni netti ma semplici, lampi di parole e di significati privi tuttavia di organizzazione logica, razionale, riflessiva. Non sono certamente analfabeti “strumentali”, bene o male sanno leggere anch’essi e – più o meno – sanno tuttora far di conto (comunque c’è un 5 per cento della popolazione italiana che ancora oggi è analfabeta strutturale, “incapace di decifrare qualsivoglia lettera o cifra”); ma essi sono analfabeti “funzionali”, si trovano cioè in un’area che sta al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura o nell’ascolto di un testo di media difficoltà. Hanno perduto la funzione del comprendere, e spesso – quasi sempre – non se ne rendono nemmeno conto.
Quando si dice che quella di oggi non è più la civiltà della ragione ma la civiltà della emozione, si dice anche di questo. E quando Bauman (morto ieri, grazie a lui per ciò che ci ha dato) diceva che, indipendentemente da qualsiasi nostro comportamento, ogni cosa é intessuta in un discorso, anche l’ “analfabetismo” sta nel “discorso”. Cioè disegna un profilo di società nella quale la competenza minima per individuare una capacità di articolazione del proprio ruolo di “cittadino” – di soggetto consapevole del proprio ruolo sociale, disponibile a usare questo ruolo nel pieno controllo della interrelazione con ogni atto pubblico e privato – questa competenza appartiene soltanto al 20 per cento dei nostri connazionali.
È sconcertante, e facciamo fatica ad accettarlo. Ma gli strumenti scientifici di cui la linguistica si serve per analizzare il rapporto tra “messaggio” e “comprensione” hanno una evidenza drammatica.
Non è un problema soltanto italiano. L’evoluzione delle tecnologie elettroniche e la sostituzione del messaggio letterale con quello iconico stanno modificando un po’ dovunque il livello di comprensione; ma se le percentuali attribuibili ad altre società (anche Francia, Germania, Inghilterra, o anche gli Usa, che non sono affatto il modello metropolitano del nostro immaginario ma piuttosto un’ampia America profonda, incolta, ignorante, estremamente provinciale) se anche quelle societá denunciano incoerenze e ritardi, mai si avvicinano a queste angosciose latitudini, che appartengono soltanto all’Italia, e alla Spagna.
Il “discorso” è complesso, e ha radici profonde, sociali e politiche. Se prendiamo in mano i numeri, con il loro peso che non ammette ambiguità e approssimazioni, dobbiamo ricordare che nel nostro paese circa il 25% della popolazione non ha alcun titolo di studio o ha, al massimo, la licenza della scuola elementare. Non è che la scuola renda intelligenti, e però fornisce strumenti sempre più raffinati – quanto più avanti si vada nello studio – per realizzare pienamente le proprie qualità individuali. Vi sono anche laureati e diplomati che sono autentiche bestie, e però è molto più probabile trovare “bestie” tra coloro che laurea e diploma non sanno nemmeno che cosa siano. (La percentuale dei laureati in Italia, poi, è poco più della metà dei paesi più sviluppati.)
Diceva Tullio De Mauro, il più noto linguista italiano, ministro anche della Pubblica Istruzione (incarico che siamo capaci di assegnare perfino a chi non ha né laurea né diploma – e questo dato rientra sempre nel “discorso”), che più del 50 per cento degli italiani si informa (o non si informa), vota (o non vota), lavora (o non lavora), seguendo soltanto una capacità di analisi elementare: una capacità di analisi, quindi, che non solo sfugge le complessità, ma che anche davanti a un evento complesso (la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale) è capace di una comprensione appena basilare.
Un dato impressionante ce l’ha fatto conoscere ieri l’Istat: il 18,6 per cento degli italiani – cioè quasi uno su 5 – lo scorso anno non ha mai aperto un libro o un giornale, non è mai andato al cinema o al teatro o a un concerto, e neppure allo stadio, o a ballare. Ha vissuto prevalentemente per la televisione come strumento informativo fondamentale, e non é azzardato credere – visti i dati di riferimento della scolarizzazione – che la sua comprensione della realtà lo piazzi a pieno titolo in quell’80 per cento di analfabeti funzionali (che riguarda comunque un universo sociale drammaticamente molto più ampio di questa pur amara marginalità). E da qui, poi, il livello e il grado della partecipazione alla vita della società, le scelte e gli stili di vita, il voto elettorale, la reazione solo di pancia – mai riflessiva – ai messaggi dove la realtà si copre spesso con la passione, l’informazione e la sua contaminazione con la pubblicità e tant’altro che ben si comprende. È il “discorso”.
Il “discorso” ha al centro la scuola, il sistema educativo del paese, le scelte e gli investimenti per la costruzione di un modello funzionale che superi il ritardo con cui dobbiamo misurarci in un mondo sempre più aperto e sempre più competitivo. Se noi destiniamo alla ricerca la metà di un paese come la Bulgaria, evidentemente c’è un “discorso” da riconsiderare.
(Questo testo è un omaggio a Tullio De Mauro, morto nei giorni scorsi, che ha portato la linguistica fuori dalle aule dell’accademia, e l’ha resa uno degli strumenti fondamentali di analisi di una società)
Nota dell’autore Nella prima versione del testo gli accenti non erano corretti. Il mio pc ha la tastiera americana, e in inglese le vocali non hanno accento. Debbo praticare un artifizio pur di mettere un accento: batto l’apostrofo e poi, di seguito, la vocale, e – miracolo – appare la vocale accentata! È un “danno collaterale”. E me ne scuso.
Mimmo Càndito (Reggio Calabria, 15 gennaio 1941 – Torino, 3 marzo 2018) Trasferitosi da Reggio Calabria a Genova negli anni sessanta vi si laureò in giurisprudenza. Venne assunto al comune del capoluogo ligure e iniziò a collaborare con Il Lavoro scrivendo articoli di cinema e cultura. Nel 1970 passò al quotidiano torinese La Stampa, per il quale diventò inviato speciale e commentatore di politica internazionale. |
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