Anche Verona ha il suo quartiere bohemien, il suo Marais: Veronetta.
Vecchie case e nobili palazzi affaticati, ormai abituati all’eclettica popolazione che anima le vie: universitari con gli occhi fissi sul cellulare e i pantaloni con il risvoltino, anziani che portano a spasso cagnolini più sbilenchi di loro, teste rasta, matrone ghanesi col figlio sulla schiena, minuti filippini indaffarati, artisti, professori, artigiani e perditempo.
Anche le botteghe sono particolari: osterie, bar e ristorantini bio/vegan si inframezzano a odorosi negozi di cibi etnici, copisterie che offrono pacchetti di “fotocopie, caffé e brioche” a prezzo fisso, librerie e rivendite di libri e vestiti usati, parrucchieri low cost….
E in via Cantarane, in un cortile poco visibile dalla strada e praticamente accoccolato contro le mura di cinta della maestosa Provianda di Santa Marta, c’é il laboratorio di un’impresa familiare che da ben centoesette anni, lavorando terre colorate e altri materiali naturali, produce una gamma infinita di pigmenti colorati per l’arte, il restauro, l’industria e l’edilizia.
Come spesso capita, Dolci Colori (perché é così che si chiama la fabbrica del colore) é più conosciuta all’estero che sul patrio suolo: gli artisti australiani, americani o tedeschi sanno che, se vogliono colori eccellenti e naturali, devono rivolgersi a Giacomo, Alberto e Andrea Dolci. Addirittura in Francia si sono meritati l’appellativo di Magiciens des couleurs (Maghi del colore).
Io che non dipingo, non mi occupo di restauro o architettura, ma sono di Verona e la zona la bazzico perché la sede dell’Osservatorio, nel Polo Didattico Zanotto, é lì a due passi, ho saputo della loro esistenza per caso alcuni anni fa, scorrendo il Registro delle Imprese Storiche Italiane di Unioncamere.
A fine gennaio, sollecitata da una comune amica, sono andata a scoprire questa realtà e ho conosciuto Giacomo e Andrea Dolci.
Appassionati del loro lavoro e affabili di natura, mi hanno raccontato della loro vita dedicata al colore, alla continua ricerca di materie prime, dei loro rapporti con artisti e architetti di tutto il mondo, della loro sfida per produrre colori sempre più eco-compatibili.
Quasi timidamente mi hanno affidato, perché vengano annoverate dell’Archivio dell’Osservatorio alcune monografie sulla loro azienda che, a partire da
Sacchi su sacchi pieni di sfumature incredibili, macine di pietra rese irreali dai depositi coloratissimi, pareti usate come tavolozze per controllare la resa delle pitture da restauro, file e file di barattoli e provette di vetro con i pigmenti ordinati in progressione cromatica.
Congedarmi e uscire mi ha fatto sentire un po’ come Alice che lascia il paese delle meraviglie.
La strada, il cielo e i palazzi mi sono sembrati particolarmente anemici ma, incamminandomi verso l’Osservatorio con il mio pacco di monografie sotto il braccio, ho realizzato che, ancora una volta, il genio, la creatività e l’entusiasmo della piccola impresa italiana restano nel DNA di chi, alla faccia della crisi e dei problemi, continua a crederci.
Tiziana Sartori
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