Forse quello che mi verrà fuori sarà un articolo a mezza via tra il nostalgico e l’amaro, scritto d’impulso e debolmente nobilitato con pochi dati scopiazzati frettolosamente dalla rete.
Qualche mese fa, dal repulisti del ripostiglio di una parrocchia veronese, ho recuperato una Divisumma 24 Olivetti. Adesso ce l’ho qui, a fianco del mio primo Mac del 1986, che ai miei occhi ha sempre rappresentato il simbolo massimo di genialità del ‘900.
Ma la Divisumma, l’ho capito razzolando sul web per racimolare notizie, supera di parecchie lunghezze il Mac e lo precede di molti anni.
Ed è tutta italiana.
Il mio lavoro come consulente di comunicazione aziendale e il mio impegno nell’Osservatorio Monografie Istituzionali d’Impresa, inevitabilmente, fanno di me un’appassionata del racconto d’azienda.
Ma anche un prodotto mi racconta una storia.
Mi racconta la storia di una famiglia e di un’azienda che sin dai primi anni del ‘900 hanno valorizzato il design, la creatività anche tecnica, il lavoro di testa e di mano, la persona sia maschile che femminile, con una lungimiranza e una modernità che le più evolute aziende del nuovo millennio stanno raggiungendo adesso, nel nome delle Best Practice e della Responsabilità Sociale d’Impresa, intese come massima espressione dell’evoluzione imprenditoriale.
Velocemente ecco la storia della Divisumma 24: progettata da Natale Capellaro con design di Marcello Nizzoli esce nel 1956. E’ una calcolatrice superautomatica in grado di eseguire tutte e quattro le operazioni e dotata di una memoria.
Al suo interno un intricato sistema di ingranaggi funziona con estrema precisione.
Una curiosità: per il buon funzionamento sono necessari quattro tipi diversi di olio lubrificante, con diverse viscosità, per ridurre gli attriti fra le varie parti.
Meritatamente riceve un premio per l’innovazione tecnologica: è un gioiello di ingegno della meccanica di precisione e sul mercato mondiale non ha rivali.
E come tale rimane fino ai primi anni ’70, nonostante sia carissima: nel 1957 viene venduta a 325.000 lire (che rapportate al valore dell’euro nel 2016 corrispondono a circa 4.600 euro); un prezzo che se si confronta con le 465.000 lire necessarie per acquistare una FIAT 500 e con le 60.000 lire di uno stipendio medio di quegli anni è altissimo.
La produzione della macchina, svolta interamente negli stabilimenti di Ivrea, vede una presenza importante di mano d’opera femminile, particolarmente apprezzata per l’abilità nel montaggio di ingranaggi così delicati.
E dalla Divisumma arrivare a parlare di Olivetti il passo è breve.
Degli Olivetti e della Olivetti.
Non ripercorro la storia di questa grande realtà, in cui spicca la figura di Adriano Olivetti con il suo progetto – da molti bollato come utopico – di Fabbrica-Comunità che vedeva la fabbrica come strumento di crescita del territorio, di miglioramento delle le condizioni di vita di tutti, con un welfare su misura, servizi, educazione e cultura.
“Le sue erano idee troppo innovative, e per questo aveva anche molti nemici che lo osteggiavano fortemente. Quando è scomparso è stato anche dimenticato. Da qualche anno, con la crisi che stiamo vivendo, c’è una riscoperta”.
Così diceva Lalla, figlia di Adriano, scomparsa nel dicembre del 2015 e per anni tenacemente alla guida della Fondazione Adriano Olivetti.
Non posso non ricordare che fu in Olivetti, 15 anni prima di Steve Jobs e Bill Gates, che venne inventato il Personal Computer.
Nel 1964 nasce infatti, su progetto di Pier Giorgio Perrotto, la Programma 101: mai prima d’allora in un prodotto commerciale tanta potenza di calcolo era stata concentrata in un volume e in un peso così piccoli. La macchina, presentata a New York nel 1964 riscosse un successo strepitoso però, come racconta lo stesso Perrotto, ” gli uomini di marketing dissero che non era né un grande calcolatore elettronico, né una calcolatrice da tavolo, per questo il suo mercato non esisteva. Prova era che i concorrenti non avevano fatto nulla del genere”.
Così, mentre la Olivetti tornò a concentrarsi sulle macchine da calcolo e da scrivere, i concorrenti d’oltremare avevano la strada segnata da questa grande intuizione italiana.
Poi, poi, poi‚…adesso Olivetti è un’azienda del gruppo partecipato Telecom, che lo detiene dal 2000 e che, con intuizioni imprenditoriali di difficile interpretazione, è riuscita a ottenere questi risultati: 30 milioni di perdite l’anno per 10 anni consecutivi e, se nel 2002 contava ancora 4.500 dipendenti, nel giugno del 2015 ne contava 570, di cui 370 in esubero e gli altri da incorporare nella Telecom Italia Digital Solutions, in cattive acque pure lei.
Come afferma Marco Palombi su Il Fatto Quotidianio dell’8 giugno 2015: “Come muore una delle industrie italiane più famose nel mondo? In silenzio, per consunzione, errore dopo errore, equivoco dopo equivoco.”
Per consolarmi mi sono fatta una passeggiata virtuale nel sito della Fondazione Adriano Olivetti e i quello Archivio Storico Olivetti.
Ed in quest’ultimo ho trovato e ripropongo (non vìolo il copyright perché cito la fonte) una frase che vorrei aver scritto io, e che calza a pennello con le attività dell’Osservatorio e sul vero significato della narrazione d’impresa:
Conservare la memoria storica di un’impresa per promuovere la conoscenza del passato e contribuire alla costruzione del futuro.
Tiziana Sartori
Articolo molto interessante, grazie!!!
alex
Sono lieto le sia piaciuto dottor Merseburger!
Notizie ancora più interessanti le può trovare nei tre link indicati alla fine dell’articolo.