C’è una bella pellicola di Sidney Pollack del 1973: The Way We Were interpretato da Barbra  Streisand e Robert Redford, giunta sugli schermi italiani con il titolo Come eravamo.
Il film racconta tre intensi lustri vissuti insieme dai protagonisti, dalla vigilia della seconda guerra mondiale alle mobilitazioni “Ban the Bomb” degli anni ’50 contro la bomba atomica.
Tipico prodotto dell’operazione nostalgia favoleggia, con toni delicati alla Scott Fitzgerald, di un’epoca dove tutto sembrava facile e tutto sembrava possibile, come sempre accade nella giovinezza. Ma alla fine, della giovane ebrea attivista comunista e del promettente scrittore progressista non rimangono che due persone sconfitte dalla storia e ricacciate, loro malgrado, nei contrapposti ambienti dai quali provenivano e da cui avevano creduto di poter fuggire.
Un po’ quello che, seppure con toni più indulgenti scrive Guccini qualche anno dopo nella sua “100 Pennsylvania Avenue” una struggente canzone autobiografica che un po’ ripercorre un analoga vicenda: “… perché da allora già lo sentivamo che possibilità ce ne son tante per quei due tipi che allora eravamo: io son quasi importante, tu cosa sei, e chi siamo? …”.

Orbene, quest’opera filmica, divenuta fin da quei tempi un cult, è quasi il paradigma della metrica sulla quale si compone oggi buona parte della produzione della monografia istituzionale d’impresa.
In moltissime monografie aziendali di questi ultimi anni si tende, infatti, a dare un vasto spazio ad un passato idilliaco nel quale rifugiarsi, glissando o mettendo sottotono un futuro che appare probabilmente incerto e poco rassicurante.
E’ l’atteggiamento tipico dei “vecchi”, quell’atteggiamento, cioè, che fa vedere sempre bello tutto quello che ricorda la giovinezza e valutare inconsciamente più l’età che si aveva a quei tempi che gli avvenimenti realmente accaduti.
Ma nelle monografie istituzionali non stiamo parlando di singole esistenze ma di Imprese. Parliamo di organismi sociali ai quali sono affidate la sopravvivenza delle esistenze presenti e future. Per cui vale la pena porsi delle domande.

“… trasformare tutto in storytelling è di moda …” mi è stato detto. Non credo.
Il Corporate Storytelling sintetizza, filtra e trasforma, attraverso l’utilizzo di figure mitologiche, la quotidianità per giungere a prospettare un futuro glorioso che prende forza proprio dalla consapevolezza di quel che siamo stati e dalle difficoltà che abbiamo superato.
Nello scenario che stiamo analizzando invece, ci troviamo spesso di fronte ad una apologetica storiografia, quasi che l’azienda o l’organizzazione di cui si narra appartenesse esclusivamente al passato ed il futuro fosse solo ipotetico. Se non addirittura assente.
E i simboli di questo atteggiamento mentale sono presenti frequentemente anche in molte esternazioni dell’Heritage aziendale.

E’ un atteggiamento consolatorio e remissivo, non accettabile da parte dell’Impresa sul piano della Responsabilità Sociale che questa deve sempre adottare nei confronti dei propri stakeholder.
Proprio perché chi sceglie di non parlare del futuro lo fa inconsapevolmente, è importante evidenziare questa involontaria auto-censura in considerazione che spesso un fine è prefigurato dai mezzi. Mezzi che arrivano in taluni casi a trasformarsi nel fine stesso.

Voglio chiudere questa breve riflessione ringraziando il nostro amico Marco Montemaggi per avermi portato a conoscere la fulminante definizione che Gustav Mahler dava di “tradizione” e che sintetizza in poche parole quello che io ho cercato, spero non invano, di descrivere in questo scritto: “… tradizione è la salvaguardia del fuoco, non l’adorazione delle ceneri …”

Stefano Russo