Per introdurre l’argomento mi aggancio all’intervista di Pierluigi Panza ad Aleida e Jan Assmann, (Corriere della Sera 11.11.2017), che trovo significativa in relazione alla mission dell’Osservatorio Monografie d’Impresa, soprattutto nel breve stralcio che riporto:

Perché ricordare dovrebbe essere un peso personale? 
Ricordare è ciò per cui i nostri cervelli sono fatti e se non possono più eseguire questo compito ci troviamo di fronte a gravi problemi. Scaricare la nostra memoria dal carico psichico o cognitivo è altrettanto necessario, ovviamente, ed è la ragione per cui abbiamo anche bisogno di dimenticare. È vero, però, che oggi siamo dotati di smartphone che ci portano ogni tipo di informazione a portata di mano. Perché dovremmo ancora ricordare se siamo in grado di spostare tutte le informazioni nella memoria esterna? Perché dobbiamo ricordare il nostro pin, i nostri nomi, la nostra storia e una rete di relazioni personali, per non parlare delle nostre abilità professionali e dell’educazione. Tutto questo costituisce la nostra identità. Dobbiamo inoltre ricordare molto per essere in grado di cercare informazioni. Quindi il cervello viene esteso dalla tecnologia …

L’Osservatorio, nell’ambito della propria mission, ha anche la finalità di raccogliere, divulgare e valorizzare le storie delle imprese fissate in manufatti cartacei: i libri.
“L’oggetto libro” è una fonte di stimoli che partendo dalla comunicazione tattile, lo sfogliare, arrivano a quella visiva della lettura, attività funzionale al ricordare che, come dicono gli Assmann “… è ciò per cui i nostri cervelli sono fatti …”.

Attraverso la memoria si favorisce la costruzione dell’identità individuale e di gruppo.
Nell’ambito di un discorso esteso sull’Heritage, le Monografie e con esse i Musei aziendali forniscono oggi gli elementi mancanti di una trama identitaria collettiva. Trama questa offuscata dalla introduzione rapida delle nuove tecnologie che, spostando e rimandando gli stimoli ad una memoria esterna, non agevolano l’introiezione delle conoscenze, quale processo di normale digestione dei saperi e la conseguente trasmissione culturale.

Significativo, a proposito, il caso di Manfred Spitzer, psichiatra tedesco, che una mattina non riesce a raggiungere il proprio studio a causa della rottura del GPS e si rende conto che la “Demenza digitale” (che descriverà nel libro omonimo) è una malattia dalle conseguenze devastanti per il nostro futuro.
Del resto la ricerca scientifica ci aiuta in tal senso con uno studio sui tassisti di Londra, i quali girano senza problemi la metropoli senza ricorrere al navigatore satellitare. Questo continuo esercizio mnemonico li ha portati ad avere un ippocampo – elaboratore della memoria da breve a lungo termine – più sviluppato della media come si evince da un articolo de La Repubblica.

Teoricamente le imprese, in quanto organizzazioni, hanno tutte i contenuti della propria “Monografia istituzionale” (e cioè la propria storia intesa come passato, presente e proiezioni future, nonché la propria mission ed i propri valori) ed è un peccato che solo una parte di questo universo abbia sentito e senta la necessità di fissarla su carta.
Se la narrazione imprenditoriale su carta si diffondesse con maggior consapevolezza e frequenza, l’arricchimento che ne conseguirebbe sarebbe in grado di offrire a noi e alle generazioni future valori di una identità collettiva costruita da chi ha saputo fare e sa fare, coniugandoli con il bene comune. 

Interessante sotto questo aspetto la pubblicazione celebrativa, dedicata agli stakeholder, dei 90 anni di IBM Italia che ha utilizzato il format tipico dell’album da raccolta di figurine, nel quale è possibile attaccare le 90 figurine che raccontano la storia italiana dell’azienda.
Questa Monografia, sfrutta una modalità didattica basilare, ovvero il “fare manualmente”, che facilita la memorizzazione attraverso l’abbinamento tra didascalia della figurina ed il coinvolgimento dato dall’azione dell’incollare.
Paradossalmente a realizzare questa opera totalmente analogica non è un’azienda manifatturiera o legata ad antichi saperi, ma un colosso mondiale del digitale; la chiave di interpretazione la lascio alla vostra deduzione. 

Da questo esempio si trae che la partita, tra memoria interna e quella esterna, è tutta da giocare.
I veri attori di questa sfida saranno la memoria della collettività, a breve e a lungo termine e se quest’ultima dovesse soccombere si verificherebbe la perdita della nostra identità e dei nostri riferimenti.
A meno che, frattempo, la nostra antropologia non si fosse adeguata a nuove tecnologie di memorizzazione dall’incerto futuro, con la nascita della specie “uomo senza identità” senza radici, senza progetti, destinato non ad un futuro ma ad un presente che si ripete.

Mario Magagnino