Pubblichiamo, per la sua attualità, un breve articolo scritto un paio di anni fa dal nostro socio Stefano Russo. Questa attualità non scaturisce da un evento specifico ma dalla struttura generale di una società che sta vivendo un’epoca di completa alienazione da quei rapporti umani che dovrebbero connotarla e che invece, perdendosi nel virtuale, dimentica la natura stessa del proprio essere.

Oggi siamo tutti “social”, siamo tutti attenti alla “personal reputation” e alla “brand reputation”, siamo tutti “dialoganti” e “interconnessi”.
Ma non rispondiamo.

Perché?

Forse perché siamo regrediti al ruolo di “burocrati”? La logica del burocrate standard, ricordo, é quella del “se non faccio non sbaglio“.

Forse perché siamo insicuri di default? Intendo con ciò che nella nostra dimensione “social” siamo incapaci di intuire una dimensione “personal”.

Forse per tutte queste ed altre ragioni.
Forse perchè il nostro rapporto con il prossimo é tropo difficile per la nostra piccola dimensione. Assorbiti da una dimensione “social”, che ci protegge dalla responsabilità personale, intuiamo quest’ultima come un pericolo. Un pericolo che ci mette di fronte a noi stessi, che comporta la responsabilità di confrontarci con l’Altro. Tanto ci stiamo confrontando con “il mondo”, chi ce la fa fare di confrontarci con una “persona reale”… “potrei sbagliare“, “potrei dire una parola di più” o una di meno del necessario, potrei, in fondo, sbagliare.

E’ questo l’atteggiamento, una volta appannaggio dei peggiori burocrati pubblici, della gran parte delle persone con cui veniamo a contatto. Siano essi soggetto pubblico o privato.

Una dimensione che toglie a noi stessi il godimento del palesare noi stessi, del rappresentare la nostra figura o la figura, pubblica o privata, di cui siamo rappresentazione. Il godimento di “mandare alla malora” un rompiscatole o un importuno. Nulla, non rispondendo evitiamo di “sbagliare”.

Qualche giorno fa ascoltavo il sociologo Francesco Morace affermare – con cognizione di causa –  che “…se non si osa non si cresce…” Da questo deduco che siamo, spero di sbagliarmi, in una società probabilmente destinata alla decrescita permanente.

Ma questi, forse, sono solo pensieri di un “ragazzo degli anni ’80”.
Quelli per i quali il rischiare, lo sporgersi dalla parola in un baratro senza sicurezze, era una pratica quotidiana. Una pratica che ha contribuito forse, in una dimensione sociale, alla sconfitta ma, in quella  personale, ad una vita che è valso la pena vivere.

Stefano Russo